LA
“STRAGE CERCATA” DI VIA RASELLA
di Massimo Caprara
dal 1944 per 20 anni
segretario personale di Palmiro Togliatti
Fonte : Storia Libera
Fu uno degli episodi più “celebrati” della resistenza partigiana.
Un “atto di guerra” che nasconde un oscuro “regolamento di conti” fra
comunisti. Il ruolo di Giorgio Amendola.
Alle ore 15 e 52 del 23 marzo 1944 passarono
cantando puntualmente come ogni giorno “Hupf meine Model, Salta ragazza mia” i
riservisti altoatesini del Battaglione Bozen, aggregato al Polizei Regiment
della Wehrmacht. Trentatre di essi vennero fatti letteralmente a pezzi da
un’esplosione dinamitarda. Fra i morti, una salma a lungo nascosta, quella di
un bambino di 13 anni, tagliato in due dalla deflagrazione. Inoltre, due altre
persone furono estratte dal cumulo delle vittime, alle quali dopo molto tempo
vennero dati un nome e una qualifica: si tratta di Antonio Chiaretti e Enrico
Pascucci, entrambi appartenenti al gruppo clandestino politico militare
anticomunista denominato Bandiera Rossa. Si accertò che erano state vittime di
un tranello, attirate sul posto e a quell’ora da altri militanti antifascisti.
L’orrendo massacro avvenne in via Rasella, che sbuca nella centralissima Piazza
del Tritone. La reazione efferata, purtroppo prevedibile in una capitale
dichiarata “città aperta”, inchioda barbaramente “l’atto di guerra” di via
Rasella, come tale definito nell’anno 2001 dalla Suprema Corte di Cassazione
della Repubblica, nell’oscuro ipogeo delle Fosse Ardeatine. Vi vennero fucilati
335 cittadini italiani da parte dei reparti agli ordini del colonnello
nazionalsocialista Kappler, il 24 marzo.
Scorrere i loro nomi è utile: circa 30
appartengono al Centro militare clandestino di tendenze monarchiche guidato dal
colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo del Comando supremo italiano; 52
appartengono al Partito d’Azione e alle formazioni di Giustizia e Libertà; 75
sono artigiani, commercianti e intellettuali di religione ebraica; 68
militavano in Bandiera Rossa. Nessuno apparteneva al Partito comunista
italiano, che pure contava a Roma di un forte apparato militare e di
consistenti complicità coperte. Molti militanti e confidenti erano stati già
arrestati, indiziati e, alcuni, tristemente perseguitati. Nessun comunista si
trovò in carcere a Regina Coeli o nel luogo di detenzione esattamente in quei
giorni della strage e della rappresaglia. Vi si trovarono invece tutte persone
che il Pci considerava nemici esecrandi, da mettere fuori combattimento:
comunque. Soprattutto sono considerati nemici giurati gli appartenenti a
Bandiera Rossa. Essi sono valutati, senza mezzi termini, puramente
“trotzkisti”: i peggiori avversari di Stalin. Leone Trotzkji, ebreo, fondatore
dell’Esercito rosso, era stato, infatti, prima condannato, poi esiliato,
braccato in tutto il mondo dalla polizia sovietica, per essere assassinato a
Città del Messico da un esecutore di origine italo-spagnola, nel 1940, dopo una
spietata caccia durata vent’anni. Dopo la guerra civile spagnola del 1936-38,
nella Roma di quegli anni feroci, continuava il massacro. L’apparato comunista
organizzò e seppe cogliere l’occasione di via Rasella e le sue conseguenze.
L’attentato venne escogitato, pensato e
previsto dai membri comunisti della rete romana: Giorgio Amendola, che ne è il
più alto in grado, Mauro Scoccimarro, Antonio Cicalini, di sicura scuola
moscovita, oltre a minori ma preziosi collaboratori, infiltrati, delatori,
confidenti nelle organizzazioni fasciste, nelle istituzioni carcerarie, nei
presidi sanitari e polizieschi del fascismo. Amendola propose il luogo, l’ora e
le modalità dello scoppio di via Rasella. Gli altri uomini d’azione, responsabili
di settore e soprattutto dei Gap, il sistema terroristico facente capo al Pci,
cioè i Gruppi d’Azione Patriottica, perfezionarono e operarono il resto. Nel
suo volume «Lettere a Milano», al quale andò come onorificenza il premio
Viareggio per la saggistica del 1974, Amendola rivelò che era stata sua
l’iniziativa della designazione del luogo e del reparto tedesco da attaccare.
Egli ne parla espressamente nelle pagine 290 e 291. Una volta messo in pratica
l’attentato in via Rasella, si tratta di compilare, mercanteggiare, correggere
e definire le liste dei fucilandi per il comando della Wermacht che le aveva
sollecitamente chieste. Furono allora mobilitati tutti gli addetti ai rapporti
di intelligence mantenuti dalla Federazione del Pci con la Direzione di Regina
Coeli, la Questura di Roma, la divisione della polizia politica del Ministero
italiano degli Interni, l’Opera Volontaria di Repressione Antifascista (OVRA),
tutto il sistema spionistico esistente a Roma. Il teste principale di questo
turpe mercato venne opportunamente liquidato a tempo debito. Donato Carretta,
direttore di regina Coeli, venne linciato tra l’aula del Palazzaccio, le scale
di Ponte Umberto e le onde del Tevere alle 9 di mattina del 18 settembre 1944.
Gli altri collaboratori furono l’ex comunista Guglielmo Blasi, divenuto
informatore della polizia militare tedesca, il tipografo autodidatta Giulio
Rivabene, di cui Amendola puntualmente scrive nel suo libro nello spazio
dedicato ai militari corrotti. Nel numero 7 del gennaio 1944 de «l’Unità», la
direttiva era stata tempestivamente data: “Si invitano i compagni a smascherare
e colpire gli agenti trotzkisti, ossia di Bandiera Rossa, nel Partito, nel
Sindacato, nelle formazioni armate, ovunque essi si annidano”. Nel giornale
clandestino milanese del dicembre 1943, «La nostra lotta», Pietro Secchia aveva
dato il via al circuito malsano di informatori, gestori, operatori dell’infame
reperimento dei fucilandi della “strage cercata” di via Rasella.
“L’attentato che provocò quella
carneficina fu voluto per un solo scopo. A Roma ormai le formazioni della
Resistenza che non riconoscevano il Cln avevano la maggioranza. Ed erano a buon
punto le trattative avviate dalla federazione Repubblicana Sociale con Kappler
perché i tedeschi lasciassero Roma senza spargimenti di sangue. Ma nel voler
far fallire questo accordo c’era un interesse del Pci, per fini di politica
interna” (Roberto Guzzo, fondatore dei gruppi Bandiera Rossa, cit. in
Pierangelo Maurizio, «Via Rasella, cinquant’anni di menzogne», Maurizio
Edizioni, Roma 1996, pag. 69).